Lunedì, 28 Gennaio 2019 16:58

Avan-Guardie

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Realizzo che per essere la prima volta che scrivo seriamente parto subito con un tema caldo e complesso che riguarda la vita che facciamo noi tutti i giorni, con l’ obbiettivo di andare a sensibilizzare i lettori su tutto quello che più confonde il ruolo delle istituzioni nei confronti di noi detenuti, ma soprattutto con la speranza di aprire uno spiraglio verso il cambiamento alla reale empatia di cui noi dovremmo beneficiare al fine di sentirci più esseri umani e meno numeri.

Ci siamo mai soffermati nell’interrogarci sul significato della parola rieducazione? Spesso si tende a confondere la rieducazione con il reinserimento, invece secondo la mia basica e spartana opinione di “carcerato in erba” i due concetti sono ben diversi.

Rieducazione, quell’ insieme di circostanze variabili alla quale noi quotidianamente dobbiamo interfacciarci al fine di modificare le nostre logiche comportamentali per poter ottimizzare le nostre prestazioni sociali. Già, proprio come una macchina, si arriva qua con innate o acquisite qualità e prestazioni, che per una qualche ragione hanno smesso di rendere secondo l’interpretazione corretta che ci impone di seguire la legge, ragion per cui siamo costretti ad effettuare una sorta di ripristino o di analisi al fine di individuare i problemi, ciò che non funziona correttamente e di sottoporlo ad un'adeguata ed oculata manutenzione. L’inizio dei lavori di ripristino è solitamente molto chiaro, dal momento in cui si varca l’ormai famoso cancello di ogni istituto penitenziario, manette ai polsi e perquisizione d'ingresso effettuata. Sulla fine dei lavori invece, ci sono tante teorie: c’è chi dice che non si finisce mai di portare a termine l’opera di riqualificazione, c’è chi invece riesce a smussare ed elaborare rapidamente, a volte anche prima del dovuto, altri ancora che invece fingono volontariamente di darsi da fare perché sono poche le alternative, tanto prima o poi la fine arriva in ogni caso.

Reinserimento, processo graduale fondamentale che consente al carcerato di perdere la condizione di disumanizzazione che l’alienamento dalla società comporta trascorrendo gli anni all’interno dei nostri istituti di pena.
Al di là di questa piccola circostanza prefazionale, vorrei portare l’attenzione su quello che recita una recente modifica apportata all’Ordinamento Penitenziario, nello specifico circa le disposizioni in tema di vita penitenziaria trattate al CAPO IV, dove le principali e sostanziali svolte rivoluzionarie sono state applicate andando a sostituire l’art. 1 della legge del 26 luglio 1975, n. 354 con un nuovo art. 1 di cui però vorrei solo sottolineare due punti:

  1. Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazione in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose, e si conforma a modelli che favoriscano l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione.
  2. Il trattamento tende, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale ed è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati.

All’art. 13 il primo, secondo, terzo e quarto comma sono sostituiti dai seguenti: "Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, incoraggiare le attitudini e valorizzare le competenze che possono essere di sostegno per il reinserimento sociale. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato e per proporre un idoneo programma di reinserimento."

Ho voluto riportare questi piccoli estratti per poter accendere i fari dell’attenzione su aspetti che sono a dir poco rivoluzionari in ambito detentivo, e di cui non voglio assolutamente lasciare alcun rimando personale bensì evidenziare che nel nostro universo, la realtà oggettivamente dista purtroppo anni luce da quella realtà che invece si vive fuori dalle mura. La realtà del 2019, fatta di un mondo sociale e di tecnologia compensativa (vedi ad esempio la domotica), di realtà multicolore e di innovazione artistica su ogni disciplina, di sperimentazioni politiche e di tracolli economici colossali.
In uno scenario descritto in maniera a dir poco riduttiva per ciò che c’è la fuori, noi viviamo in un'inacessabile routine fatta di domandine, di telegrammi (forse a breve potremmo inviare delle mail facendo scansionare scritti a mano), la quasi totale assenza di supporti tecnologici e informatici, di arretratezza culturale e gestionale che purtroppo ci penalizza non solo direttamente sulla base delle nostre esperienze e dei vissuti, ma anche indirettamente quando ci rapportiamo con gli standard europei e con l’avanguardia degli altri istituti di pena del nostro continente.
Sperando che questo possa essere un buon inizio e contemporaneamente uno spunto di riflessione, vi lascio alla ricerca dell’avanguardia intorno a voi.

G. D.

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