Peculiarità del Festival è stata, nonostante la location, quella di non trattare tematiche carcerarie e tra i 15 film selezionati la giuria, composta da un gruppo di detenuti della casa circondariale e presieduta dall’attore Ivano Marescotti, ha assegnato il premio – la Farfalla di ferro - come Miglior Film Cinevasioni 2016 a “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti, vero e proprio film evento di questa stagione cinematografica.
Il film racconta la storia di Enzo che fuggendo dalla polizia finisce nel Tevere rimanendo contaminato da un agente chimico che gli dona la forza di un supereroe. Essendo un antisociale e deviante Enzo utilizza immediatamente i “superpoteri” per arricchirsi, strappando a mani nude bancomat dal muro e aprendo come scatolette furgoni portavalori, ma la redenzione passa attraverso una dolce ragazza che per ripararsi dalle brutture impostegli dalla vita vive in un mondo tutto suo dove la regina Himika e il ministro Amaso del manga/anime Jeeg robot d’acciaio esistono davvero.
Raccontato così potrebbe sembrare una baracconata scimmiottante i blockbuster americani, ma gli sceneggiatori e il regista hanno calato il racconto nell’estrema periferia romana e tirato fuori una storia che nella sua intensità rasenta veri e propri attimi di poesia. Ho trovato sublime l’incontro delle solitudini dei protagonisti, Claudio Santamaria e la bravissima e bellissima Ilenia Pastorelli, e ci sono rimasto davvero male per l’epilogo.
Alla premiazione in carcere ha partecipato lo stesso Mainetti, visibilmente emozionato, accompagnato dal co-sceneggiatore Roberto Menotti. “Per me è un onore immenso essere premiato qui dentro, perché il racconto di Jeeg Robot ha a che fare con degli archetipi universali e quindi è capace di raggiungere una platea vastissima” ha dichiarato Mainetti “non dimentichiamo, però, che questo è anche un film su un uomo che pensa di avere il destino segnato ma l’amore gli insegna che non è così. Oggi il mio cuore è libero”.
Non c’erano dubbi che la giuria carceraria l’avrebbe consacrato, anche, se mi posso permettere, la catarsi finale l’ho trovata un po’ esagerata, ma forse è la mia inguaribile vena pessimistica che già da piccolo mi faceva storcere il naso davanti a Hiroshi Shiba e che oggi non mi fa sperare in questo incredibile cambiamento che altro non è che metafora del nostro.