Il carcere impone delle frequentazioni che possono rafforzarsi fino a divenire un qualcosa di approssimativo all’amicizia. Questo però sempre che vi sia stato un periodo minimo, per permettere ai soggetti un confronto che vada oltre le solite formalità date dalla convenzione di comportamenti di chi è costretto alla convivenza forzosa.
Detto questo, volendo ipotizzare una classifica degli ipotetici argomenti di conversazione, l’argomento primo potrebbe essere di ordine sportivo, con una serie di valutazioni, di fautori ed esperti calcistici. Altro argomento potrebbe essere legato al cibo, fattore principe della vita del ristretto, che compensa varie carenze, come quella affettiva, con dolciumi o fame nervosa, che puntualmente si manifesta, poi, in un aumento di peso. C’è da dire che negli ultimi anni si è affermato il culto di frequentazione del locale adibito a palestra, finalizzato, a personalissimo avviso di chi scrive, non tanto ad una sana abitudine ginnica, per mantenere muscoli e corpo reattivi, tra l’altro regolarizzata da norme e controlli medici, per evitare abusi. Questo proprio per quella forzatura che si potrebbe avere in chi ambisce a modellare il proprio fisico su modelli stereotipati, non facenti parte di chi conduce una vita reale.
Altri argomenti di conversazione che si alternano in una classifica dettata solo dal momento di vita quotidiana, alimentando la speranza sempre viva di un ritorno alla vita libera, sono dunque: il chiedere di uno all’altro, di quanto debba ancora scontare... e cosa sappia o cosa abbia saputo dal proprio legale, oppure dai famigliari. Notizie che appunto “alimentano una speranza” e che sono quella priorità per cui si vive in carcere. Queste però sono percezioni, visioni quotidiane, costruite giorno per giorno e fatte proprie, per quell’autoinganno che da sempre si perpetua nell’animo umano, per continuare a vivere anche nella privazione del bene primo dell’essere umano.
La libertà.
Le ore possono essere lente ed inesorabili in un ambiente come il carcere, spesso si ha bisogno di comunicare con gli altri, con chi può capirci, si cerca in un proprio simile quella comprensione che potrebbe anche non aversi, perché in carcere c’è anche indifferenza, egoismo, cattiveria, presunzione.
Si dimentica che il proprio bisogno è un bisogno anche di altri. Si vive, ma è un eufemismo affermarlo, quello che in ambiente esterno non è percepito. Il carcere è un’emozione intensa, ma pochi la colgono nella sua intera rappresentazione. Forse è un rifuggire inconscio del soggetto. Perché per quanto oggi esso sia meno afflittivo, è il suo destinatario che non si adatta, che non lo accetta, che non lo affronta, che non lo considera come realtà.
Non è solo un discorso di privazione materiale di libertà, il carcere è un’istituzione che, talune volte, è nelle persone, è radicato. Quando questa percezione si paventa diviene difficile affrontare e cercare di capire la maggior parte delle persone che in carcere vivono. Difficile immaginare un dialogo che non sia improntato su argomenti fluttuanti, che spaziano dalla esigenza di libertà a quella di un ricongiungimento familiare, che si presenta in modo forte nella sfera affettiva solo in quel momento di solitudine esistenziale.
È forte l’affermazione, ma è reale. La fragilità e la forza convivono in carcere in una sequenza pressoché continua, i sentimenti umani si sovrappongono, e quello che prevale nella comunicazione non è solo la capacità di comprensione che ognuno ha, ma quella di essere disposti ad ascoltare il prossimo. Quando non si riesce a farlo, possono accadere ed evincersi quei drammi che troppe volte in carcere hanno avuto un finale drammatico, dato da incomprensioni e subcultura.
Quando invece il dialogo si afferma, fosse anche per argomentazioni futili, lo scopo primo è stato assolto. Sconfiggere il tempo.
Dunque volendo evocare una battuta epocale di una famosa pellicola del secolo scorso, potremmo dire… “domani è un altro giorno…
R. P.