Gli oratori intervenuti, Daniel Lumera e Fabrizia Dragone, con le loro intense storie personali e cercando di coinvolgere attivamente l’attento pubblico di studenti, hanno prima di tutto posto l’attenzione sul significato della parola perdono, facendo notare come già nella sua etimologia includa il dono, l’accettazione, e l’inclusione dell’altro da sé.
Attraverso la visione di toccanti filmati narranti esperienze di vita vissuta tutti i presenti sono stati invitati ad “educare il cervello ad agire con consapevolezza”, una consapevolezza di tipo emotivo che nasce dopo quella che viene definita la “dieta emozionale” che vieta i “nutrimenti” più tossici per ognuno di noi, ossia rancore, rabbia, odio, risentimento, amarezza, ostilità e paura.
È stato proposto un percorso che attraverso 4 fasi (accusa, responsabilità, gratitudine, amore) e con l’utilizzo della “tecnica delle 3 lettere” porta a fare propria la catartica frase finale “Perdono e libero me stesso per sempre da tutto ciò che è stato. Mi libero, ti libero. Mi perdono, ti perdono. Grazie”.
Il valore aggiunto di questo dialogo è stato senza dubbio il contesto, perché il riunire una platea di detenuti che scontano i loro reati (quindi dei colpevoli per definizione e che “sicuramente” devono farsi perdonare qualcosa), e dei giovani studenti (innocenti per definizione) ha posto le basi per un ipotetico ricongiungimento tra queste due realtà che a causa dei luoghi comuni quotidianamente veicolati dai media sembrano sempre agli antipodi.
Invece è stato bello notare la viva sensibilità dei ragazzi intervenuti, che cogliendo il messaggio della mattinata hanno provato empaticamente a comprendere che quelli che per una volta non erano al di là del muro, ma seduti a fianco a loro, non erano dei “diversi”, ma solo comuni esseri umani.
Ecco penso che il senso del progetto sia proprio in questo, nel trasformare una buona pratica personale, quella del perdono, in una peculiarità che risana le relazioni e le ferità di tutta la società.