Nello specifico per tutti coloro:
a) ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari;
b) arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto;
c) detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo;
d) coloro nei confronti dei quali sia applicata una misura alternativa alla detenzione a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo;
e) coloro ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva.
Il quadro normativo di riferimento che ha esteso il prelievo del DNA per i soggetti elencati è l’articolo 9 della legge 30 giungo 2009 n.85. Pur se non mancano quesiti interpretativi di non facile soluzione, ai quali è probabilmente da addebitarsi il ritardo nell’applicazione della norma. Interrogativi emersi con l’articolo 224 bis del C. P. P, introdotto dalla Legge 30 giungo 2009 n.85. L’articolo facendo riferimento ad “accertamenti medici”, non si limita ad indicare come possibile il prelievo di capelli, saliva e peli, ma lo estende: “potrà essere disposto su ogni tipo di campione biologico suscettibile di essere prelevato (o semplicemente lasciato/consegnato dal sospettato).”
Il prelievo coattivo ad una prima lettura della norma sembra inoltre non disciplinare tutta una serie di particolari ipotesi che potrebbero in qualche modo limitarne l’ammissibilità: si pensi ad esempio alle donne incinte o a persone affette da gravi patologie. Anche se si prescrive come “Non possono in alcun caso essere disposte operazioni che contrastano con espressi divieti posti dalla legge o che possono mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute della persona o del nascituro, ovvero che, secondo la scienza medica, possono provocare sofferenze di non lieve entità”. Infine altre criticità affiorano in merito alla possibilità di procedere a prelievi coattivi su persone diverse dall’indagato ed al familial searching (indagine condotta avvalendosi di materiale biologico proveniente dai più stretti congiunti dell’indagato). Nel primo caso l’accertamento risulta possibile, ove occorra. Nel secondo questa strada non pare percorribile, tutelando diritti e facoltà dei congiunti.
Nel quadro generale la legge “muove i passi” dal Trattato di Prum, l’accordo stilato nel 2005 insieme ad altri paesi dell’area euro come: Belgio, Germania, Spagna, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Austria, con il chiaro intento di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale.
L’idea del Legislatore è di avere una banca dati fornita non solo di impronte digitali e foto segnaletiche, ma “arricchita” di materiale biologico, cosicché da poter consentire in “futuro” agli organi di Polizia Giudiziaria, un’efficiente e rapida attività investigativa.
Il regolamento attuativo, in “vigore nel silenzio più totale” dal 10 giugno 2016, oltre a istituire una banca dati nel Dipartimento di Pubblica sicurezza presso il Ministero dell’Interno e un laboratorio centrale nel Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) dispone che gli addetti preposti al prelievo del DNA, insieme al personale sanitario ausiliario di polizia giudiziaria, siano gli agenti di Polizia Penitenziaria.
Il prelievo coattivo di materiale biologico (saliva) limitato a quelle sole ipotesi di reato di gravità medio-alta, avviene mediante lo strofinamento nella cavita orale di due “tamponi lecca lecca”.
Il provvedimento, seppure giunto a compimento in un periodo di “allarme generale” per quanto concerne i reati riconducibili all’estremismo radicale, alla criminalità transfrontaliera e alla migrazione illegale, pone però dei seri interrogativi sulle modalità di prelievo e l’efficienza dello stesso.
Infatti, se da un punto di vista statistico la “Prova del DNA” è una fonte quasi certa: la possibilità che due profili genetici coincidano è pari allo 0,0000000000001%, bisogna non sottovalutare quei casi di “gemelli monozigoti” (secondo i dati ISTAT, attualmente ogni anno in Italia si hanno circa 5.600 gravidanze gemellari e 280 trigemine), in Europa la percentuale si aggirerebbe intorno allo 0,2% della popolazione.
Dall’altro a mettere in discussione la validità della prova del DNA, potrebbe risultare la raccolta e l’analisi dei dati. Ovvero i casi in cui il “laboratorio di profiling” possa avere personale poco competente o addirittura i casi in cui il tampone utilizzato possa essere “contaminato” dalle condizioni ambientali ove avviene il prelievo del DNA.
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