Che cosa può comportare tutto questo? Come si affrontano e cosa sono i “periodacci in carcere”?
Se dovessimo indicare quali, potremmo dire che sono tutti i momenti conflittuali in cui non riusciamo giornalmente a comunicare o a comprendere un qualcosa che all’interno del sistema carcere ci obbliga ad accettare situazioni ambigue, che all’esterno non si sarebbero poste, o che si sarebbero evitate.
Possono essere una negazione ad una richiesta di comunicare con un famigliare, una notizia che disattende le nostre aspettative, un desiderio, una emozione che non si sa gestire. Può essere l’altrui umore, quello del compagno di camera o di chi si frequenta, che si condivide anche non volendo, quel senso di oppressione, quella quotidianità che troppe volte è ripetitiva, ma che non trova soluzione proprio per la vita cadenzata da orari e ritmi che il carcere impone, ieri come oggi. Regole che nel tempo possono essere state smussate, ma che fanno parte di un sistema che, per quanto adattato ai tempi e al diritto del cittadino prigioniero, connota l’umore e quasi lo sguardo di chi vive la carcerazione.
Ma poi prevale la natura umana, e tutto, come è iniziato, finisce, con nuove speranze e nuove aspettative. Si! Alle volte anche l’autoinganno aiuta a superare momenti no.
Un alternarsi di emozioni, un qualcosa che ripete giornate sempre uguali, con cadenze fisse che bisogna cogliere al volo, altrimenti c’è l’attesa fino al giorno dopo. Piccole gioie che il tempo scandisce: un caffè, una partita di calcio, una notizia di sport. In carcere bisogna pensare al dopo, ma prima che il dopo giunga. Di conseguenza anche le cose più piccole sono ricche di importanza.
Tempi scanditi da attesa e speranza: la consegna della posta, la gioia di riceverne che accende l’animo, la delusione di non averne ricevuta e la conseguente perplessità del come e del perché.
Il tempo stesso influisce in modo da far diventare tutti ansiosi, si lega ad un ricordo, o alla mancata speranza di fare sport perché piove. E poi il cibo, a cui si lega la compensazione di trascorrere un tempo infinito in un qualcosa che funge da rituale. In altri casi, il culto della persona si innesta in modo più o meno ossessivo cercando di mantenere integro quel che rimane della propria forma fisica. Ognuno occupa il tempo in quello che la propria visione del carcere gli offre, come emozione positiva o negativa. Tutto è legato alla sfera di quello che si è stati nel senso di vissuto.
Al desiderio di calma apparente si alternano periodi in cui sembra che nulla vada come si era prospettato, un sottile equilibrio psichico a cui non si sfugge. Il carcere oggi è il riflesso della società esterna, è quel serbatoio di cittadini che hanno violato regole sociali, convenzioni, comportamenti. Il tentativo di sfuggire ad una realtà che alle volte opprime spinge a cercare altre realtà, surrogate da un’alterazione della vita reale. È un non accettarsi che porta all’annullamento della persona, ad un abuso di quelli che oggi vengono definiti blandi sedativi umorali, ma si rivelano essere un viatico di disperazione e solitudine, perché portano all’assuefazione. Queste scelte eccessive per occupare il tempo in carcere appartengono ad una fascia di persone sempre maggiore, che dell’uso arrivano a fare abuso. In nome di una normalità che tale non è, dunque, i periodacci possono comprendere tutti i giorni, o possono essere sporadici, se chi li vive sa accettare se stesso e trasformare quella negatività momentanea in una esperienza di vita, negativa, ma pur sempre facente parte di noi stessi.
Redazione