Ci sono libri che sono adatti a ogni momento della nostra giornata, e altri che rappresentano frammenti particolari nel percorso inframurario.
Questa è la storia di una piccola raccolta di libri nata e cresciuta nel corso di una detenzione.
Il carcere mi ha dato l’opportunità di tornare ad accostarmi ai libri e riscoprire il piacere della lettura, non solo d’evasione (qui la possibilità di fuggire, anche solo con la mente, è un lusso vero e proprio), ma anche di allargare i miei orizzonti e spaziare verso tematiche che fuori avrei voluto approfondire, ma i ritmi del quotidiano mi avevano sempre impedito di approcciare.
La maggior parte della biblioteca minima di galera è ovviamente costituita da narrativa, dai grandi classici a opere meno celebri. Personalmente adoro rileggere i libri che ho amato nel passato, riviverli e mettere a confronto l’esperienza della lettura precedente con la nuova.
Rileggere un buon libro mi dà un po’ la sensazione di tornare in una casa per le vacanze e ritrovarla come l’avevo lasciata l’estate prima.
Il primo libro che avevo chiesto, ai “Nuovi Giunti”, era stato “Il Conte di Montecristo” di Dumas, (pensando che ogni biblioteca di galera che si rispetti non potesse non possederne una copia), altri libri che ho amato rileggere sono stati “Il nome della rosa”, il “Cimitero di Praga” e “Il pendolo di Foucault” di Umberto Eco, la “Trilogia di New York” di Paul Auster e “Diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino. Tra le letture meno impegnative seguivo due filoni distinti, quello del noir: James Ellroy con le sue saghe, come quella della “Dalia Nera”, e, quando volevo allontanarmi dal contesto crime e celare alle narici l’aroma della cella mi buttavo sul fantasy/fantascientifico: “Il signore degli anelli” di Tolkien e i romanzi di Philip K. Dick come la trilogia del “Neuromante”. Inframezzando queste letture con autori che non avevo neppure mai sfiorato prima, è così che ho avuto l’occasione di apprezzare la trilogia de “L’amica geniale” della Ferrante, “Rumore bianco” di Don De Lillo, e opere non puramente narrative, come il teatro di Sartre, Beckett, e Ionesco.
Sia che fossero libri già letti in passato sia che fossero nuovi e ancora da scoprire, prediligevo dedicarmi a queste letture nelle ore d’aria, dopo mangiato o la sera prima di coricarmi: avevano, essenzialmente, lo scopo di spezzare un poco la noia e concedermi un momento di relax per dare alla mente la possibilità di ristorarsi. Altro spazio trovavano invece letture più impegnative, a cui cercavo di dedicare le ore della mattina, da dopo il classico momento di caffè e sigaretta fino al momento del pranzo, per poi venire riprese subito dopo le ore del demone pomeridiano per estendersi fino alla cena.
Qui entrano in campo interessi personali che ho sempre coltivato e che ho puto approfondire durante la detenzione. Per la poesia: “Paradiso perduto” di Milton, “Una stagione all’inferno” di Rimbaud, “Lo spleen di Parigi” di Baudelaire e “Orlando Furioso” di Ariosto. In merito alla passione per la scrittura “Gli attrezzi del narratore” di Perissinotto, e per quella umanistica diversi saggi, opere a tema sociologico (Montesquieu, Durkheim, Max Weber...) e filosofico: dai classici ellenici dello Stagirita fino a Hegel, insieme a opere più recenti e meno note ma non per questo meno interessanti, come “Filosofia della noia” di Lars F. H. Svendsen.
La biblioteca minima di galera è così composta, ripartita tra lettura d’evasione e d’immersione e opere che richiedono maggiore dedizione e studio, entrambe però intrecciate in un duplice filo conduttore.
Non solo quello di spezzare il tempo e trovare una dimensione alternativa alla galera, ma anche, una volta riattraversato il portale e tornati in carcere, di uscirne arricchiti, portandosi qualcosa dietro: “una nuova idea del tempo da trascorrerci, aiutandoci a viverla, vederla, e interpretarla diversamente.”
Redazione