L’ansia dell’attesa è iniziata giorni prima, sia per il fatto che nel tempo a disposizione dovessi sostenere un difficilissimo esame, sia per le lecite preoccupazioni: come si esce, come si prendono i soldi, cosa devo fare per prima cosa quando sono fuori, quando devo partire di nuovo per rientrare, a chi voglio telefonare per primo dei miei cari per un saluto.
Queste sono solo alcune delle domande che iniziano a frullarti in testa con prepotenza, senza possibilità di sgomberare la propria razionalità dagli amletici dubbi. Non c’è scelta perché se provi a non pensarci, inevitabilmente compi qualche gesto che ti inchioda di nuovo nel maremoto dell’angoscia, fino a quando arriva il grande giorno.
Sveglio ore prima che si aprano le celle, pronto con l’accappatoio per un tuffo rapidissimo in doccia. Prerogativa principale del giorno, non ritardare in alcun modo. Il tempo c’è, ma è relativamente poco per tutte le cose che ci sono da fare. Troppe, tutte insieme. Indosso la prima maglietta a maniche corte che vedo dentro all’armadio, un jeans a cui non sono più abituato e una giacchina, non troppo pesante, ma nemmeno troppo leggera. C’è il sole, ma sul clima non si può fare affidamento quindi meglio essere pronti ad ogni evenienza. Cos’altro mi devo portare? Nulla, i soli appunti e promemoria sulle cose da fare.
All’ora giusta arriva la chiamata ed il momento di uscire. Un passaggio alla Matricola, ritiro dei soldi e dei documenti, poi si incomincia a camminare verso l’enorme cancello d’ingresso in istituto e lì le ultime raccomandazioni da parte degli agenti fino a quando una nuvola rosa è apparsa prendendomi per mano negli ultimi passi verso la libertà.
Seppur il tragitto fino al cancello principale sia all'aperto, l'aria respirata prima e dopo la soglia è completamente differente. Respirare fuori è come respirare in mezzo ad una foresta, è come se fosse tutto più pulito, ricco di ossigeno.
Fuori, ad attendere, la famiglia al completo e gli amici volontari che sono vicini anche "dentro" alle mura.
Il primo gesto è un abbraccio, nel frastuono provocato dall'incontro delle emozioni. Niente lacrime, solo splendidi sorrisi di gioia e felicità. Bando alle chiacchiere, si sale in macchina. Prima ci si libera dai pensieri più ingombranti, prima si gode il tempo assieme.
Salgo in macchina, mi siedo nei sedili posteriori lato di guida. Al mio fianco c’è mio fratello, incredulo, basito, ammutolito. Sorride ma non parla, fino a quando non gli chiedo a cosa stia pensando. Mi risponde di essere tanto felice da non riuscire nemmeno a togliermi gli occhi di dosso.
Una scena memorabile. Alla guida e nel posto accanto due guerriere. La sensazione della macchina è tosta, non si capisce se sia dovuta alla velocità del mezzo o all’aria che entra forte dai finestrini e si impatta sui capelli, però è l’ennesima sensazione bellissima che sa di libertà. Arrivati a destinazione c’è il “problema” di dover scendere dalla vettura e di dover salire su un marciapiede. In quel frangente mi sono sentito alieno più che mai, ma non so dire esattamente il perché. Mi facevano impressione le altre macchine in movimento, così tante e tutte in fila, come se volessero venirmi addosso, però la sensazione è durata poco alla vista di una cara amica, nonché avvocatessa, che era lì ad aspettarmi per portarmi a fare colazione al bar.
Il primo caffè in una tazzina di ceramica dopo tantissimi anni si commenta da solo.
S’è fatta una certa, è ora di fare l’esame.
Entro nell’edificio, mi identifico, c’è da espletare la parte burocratica mentre saluto i miei. Una volta dentro inizio la prova. Tutto sembra procedere per il verso giusto, ma ad un certo punto la mente si iberna. Mi disconnetto letteralmente dalla realtà e il pensiero all’improvviso va al carcere. Penso agli altri compagni che oggi sono rimasti dentro e penso a tutti gli altri. Penso alle donne detenute e a cosa possano provare loro nel vivere un’esperienza emotiva così intensa e forte. Penso a quei bambini che puntualmente varcano la soglia di quell’enorme cancello perché magari abitano in Istituto con le loro madri oppure vengono a trovare i loro padri al colloquio.
Un cancello che confina le colpe e protegge il resto del mondo, un cancello che distrugge ogni ponte affettivo e disumanizza ogni relazione.
Dopo una ventina di minuti su questi pensieri che mi rattristano, una voce richiama la mia attenzione.
– Tutto bene? Vedo che ti sei fermato, l’esame è a tempo non dimenticartelo! – commenta il supervisore.
Mi rendo conto dello standby mentale e cerco di correre ai ripari, anche se il tempo si è vertiginosamente accorciato. La concentrazione torna ad esser stabile e completo i quesiti restanti, consegno il compito e mi dileguo, attendendo che arrivino i risultati.
Andiamo a mangiare qualcosa al ristorante, ci sediamo e consultiamo il menù. Mi sembra di essere su una navicella spaziale, schermi digitali che illustrano le pietanze, tablet al tavolo per sfogliare le pagine. Ero rimasto ai menù di carta, che si sfogliano con le mani, ora invece è tutto digitale.
Bello, nulla da dire, ma per chi vive l’esperienza di lunghe detenzioni tutto sembra surreale.
Di quel pranzo ricordo poco la percezione gustativa, ma m’è rimasto impresso che anche la Coca Cola ha un gusto diverso là fuori. Dopo tanta gioia, l’orologio mi strilla di iniziare a prepararmi. La giornata è volata e non me ne sono nemmeno reso conto. Ci salutiamo tutti per bene, l’angoscia del rientro non c’è e nel tempo ho imparato a gestire i momenti più critici.
Anticipo di qualche minuto l’ingresso per scannare l’ansia del ritardo. Una volta dentro fumo qualche sigaretta seduto sulla panchina, in attesa che mi vengano a prendere per fare il passaggio dalla Matricola.
La tempesta di pensieri mi assale lentamente, per poi sopraggiungere definitivamente quando rientro nel Padiglione E.
Tutto è andato bene, la giornata si è conclusa positivamente. Vedo qualche volto amico, qualche faccia che mi aspetta, qualche compagno che gioisce nel vedermi sorridere.
– Oh, sembri persino più giovane eppure sei stato fuori solo una giornata! – il commento di un amico.
Non sono riuscito a rispondergli, però ho pensato alla battuta di “Filumena” in Matrimonio all’italiana quando Marcello, “Dummì”, le chiede cosa avesse vedendola in lacrime.
Lei gli risponde Non ho niente Dummì, sto piangendo. Eh sapessi quant’è bello piangere Dummì!
Una giornata davvero indimenticabile.
Redazione