Il perché non è uno solo è necessita di un’analisi più complessa, sociale. Il punto è che per quanto si sia cercato di capire le motivazioni per cui molti, tanti, troppi, ma anche se fosse uno solo, decidono di togliersi la vita, rimane qualcosa che al momento l’istituzione non sa fronteggiare.
Al momento dell’ingresso è previsto il colloquio esplorativo da parte di psicologi, educatori, criminologi… che aprono una scheda che descrive a grosse linee il ristretto ed eventuali suoi deficit o fragilità.
Dopo, la persona privata della libertà si troverà introdotta in una bolgia infernale e chiassosa, come sono le sezioni detentive oggi. Perché dalla chiusura sistematica in camere o cameroni di qualche anno fa, si è passati in alcune carceri alla custodia dinamica, dove qualche sezione, non tutte, rimane aperta, con i ristretti ciondolanti nei corridoi e, vista la carenza di personale, agenti non sufficienti. Il vantaggio è che il ristretto “non rimanga chiuso oltremodo all’interno delle camere di pernottamento… (le celle)”, e il personale non debba aprire e chiudere le camere per le varie esigenze, nonché per supplire al problema del sovraffollamento e quindi, dare uno spazio maggiore al ristretto.
In questo modo però, non si può valutare la variabile dello stress, del vocio rumoroso che possono fare cinquanta persone in un piano. Questo sistematicamente per quasi tutto il giorno.
Naturalmente non ovunque è così, ma anche in cella il silenzio è un sogno, i rumori sono sempre tanti e fastidiosi.
Il carcere non ha regole di comprensione, ma solo regole, e l’essere umano deve ricorrere a tutte le sue capacità di adattamento per sopravvivere a condizioni di stress. Oggi la maggior parte delle persone non ha la capacità di sopportazione ad una particolare tensione emotiva, che si traduce, all’esterno, con gesti di incontrollabile violenza, all’interno con gesti di autolesionismo, che possono portare al suicidio.
Questo uno stato di diritto non può considerarlo come risposta da dare al cittadino. Perché lo stato detenendo e punendo un suo cittadino per una violazione del codice di convivenza, ne diviene responsabile, questo è l’obbligo del diritto.
Responsabilità vuol dire tutelare chi rientra nella propria sfera di controllo.
Al 17 giugno i suicidi in carcere tra la popolazione detenuta sono 44 [il dubbio, 16/06/2024 e 17/06/2024]. C’è chi calcola, rispetto agli altri anni, le percentuali: se quest’anno ce ne saranno di più o di meno. Anche la morte ha la sua logica matematica. Una sua filosofia che però non è amica della saggezza, ma dell’indifferenza.
L’essere umano sa che deve morire, ovviamente è un pensiero che si accantona nei meandri della mente. Si lascia al poi, ma quando la morte sopraggiunge improvvisa o per una causa che non era preventivabile o per un banale incidente, allora iniziamo a porci delle domande che il più delle volte non hanno risposte.
Le morti in carcere sono morti inutili, “gratuite”.
Persone che nella loro fragilità mettono in atto una non scelta che li annulla. È strano questo comportamento, perché l’uomo ha in sé la forza di conservazione, che gli permette di percepire il pericolo, di avere un’attenzione percettiva dei comportamenti che potrebbero causargli del male, fino a giungere al pericolo di morire. Eppure, queste morti sono adombrate da fragilità e incoscienza.
Come se quella percezione del pericolo appena accennata non si sia attivata.
Allora si pone la domanda agli esperti della “mente”, del perché ciò accade, e se accade allora vuol dire che quel soggetto era da osservare in modo più attento, perché i sintomi di un disturbo dovrebbero essere evidenti ad un occhio esperto. Se non accade, l’errore c’è stato. Non si può neanche parlare di una causalità, perché i suicidi oramai sono diventati fatti quotidiani e dunque le precauzioni si sarebbero dovute prendere da tempo.
Non si vuole iniziare una campagna a difesa di chi commette un reato, per poi nascondersi dietro una fragilità o altra forma di non sopportazione. La sanzione deve esserci, ma “bisogna riparare”.
Ora, volendo capire il perché, potremmo dire che i rimedi possibili sono molteplici, e altrettanto le cause, tra cui: sovraffollamento, mancanza di opportunità trattamentali, strutture fatiscenti e l’annosa mancanza di personale, ma tutto questo, da solo, non basta. Perché comunque il valore della vita umana dovrebbe avere un peso comune, invece ci accorgiamo che spesso ci sono morti e morti.
Finirà? Speriamolo.
È triste e lo sarebbe ancor di più se non ci fossero iniziative volte a tenere l’attenzione viva su questo problema, offrendo anche ipotesi per migliorare la situazione: quali alleggerire il numero di presenze con provvedimenti volti ad incrementare le pene alternative.
Inoltre, il Consiglio d’Europa sostiene l’uso delle case di detenzione o di reinserimento sociale, ossia piccole strutture nel tessuto cittadino dalle quali sia più facile costruire dei percorsi di inclusione.
In Europa esiste anche un movimento chiamato Rescaled che ha visto con favore, così come Antigone, quanto indicato nelle conclusioni del Consiglio Ue.
Redazione
Illustrazione di Giulia D'Ursi - Eta Beta Scs