E invece no, non ci è stato, ma il racconto in prima persona della prigionia del carnefice e della vittima è, grazie ad una scrittura secca ed asciutta, potente, intensa e perfettamente aderente alle sensazioni che si provano da reclusi. La descrizione della cella (“la cella è lunga quattro passi e larga un paio di braccia tese. Se mi alzo in punta di piedi tocco il soffitto..”) fa nascere quel senso di claustrofobia che si prova ogni volta che chiudono i blindi e il racconto dell’uscita in permesso, dopo tanti anni di detenzione, di un recluso è stato toccante, commovente quanto più posso affermare che è vero.
Non lo so se il microcosmo del carcere è adeguata metafora della vita (lo scrittore Petroni disse “il mondo è una prigione”), ma alcune frasi del libro sono il perfetto compendio del mio pensiero rispetto alle detenzione: “Il carcere non serve a restituire al mondo. È fatto per chiudere, coprire, cicatrizzare. Può chiudere in modo sporco e caotico, oppure sterile e giusto”.
Maurizio Torchio, Cattivi
Einaudi
[D. G.]