La questione è stata rimessa alla Consulta, dal GIP (Giudice per le Indagini Preliminari), del Tribunale di Lecce, nel procedimento penale in cui il giudice rimettente si era trovato a decidere, in qualità di giudice dell’esecuzione, sulla domanda di sospensione di un ordine di esecuzione della pena detentiva di anni 3, mesi 11 e giorni 17 di reclusione, che il PM aveva emesso, in base all’art. 656, co. 1 c.p.p., privandolo della sospensiva in quanto la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal comma 5 dello stesso articolo. Nel merito, la norma sottoposta al giudizio costituzionale, prevede infatti, che se la pena detentiva non è superiore a 3 anni il Pubblico Ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9 (art. 656 c.p.p.), ne sospende l’esecuzione. In considerazione alle modifiche apportate negli scorsi anni all’ordinamento penitenziario, il condannato ha quindi chiesto al giudice a quo di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che esso avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale, perché l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975, introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10, consente una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore a quattro anni.
In realtà, dopo l’inserimento del co. 3-bis dell’art. 47 O.P. (Ordinamento Penitenziario) che consente la concessione dell’affidamento in prova per pene residue fino a 4 anni, era stato autorevolmente evidenziato il mancato coordinamento della disposizione con la norma sulla sospensione dell’esecuzione, che palesemente la rendeva inapplicabile per chi volesse accedervi dallo stato di libertà, ciò nonostante il tenero della disposizione (“la misura è concedibile al condannato con una pena anche residua fino a quattro anni “quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al secondo comma”).
A questo punto non potendo il giudice interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente, la questione è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzione, in particolare quanto alla parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro. Da qui si evince che l’omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto dalla norma censurata a quello indicato ai fini dell’affidamento in prova (allargato), determinerebbe un mancato raccordo tra le norme, reputato lesivo anzitutto dall’art. 3 Cost. Circostanza questa che discrimina ingiustificatamente coloro che possono essere ammessi alla misura alternativa in quanto tenuti ad espiare una pena detentiva non superiore a quattro anni, da coloro che, potendo godere dell’affidamento in prova relativo a una pena detentiva non superiore a tre anni, ottengono la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione.
La Corte costituzionale ritenendo fondata la questione di legittimità, rileva altresì che dall’introduzione dell’affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione, non è stata adottata alcuna modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata, non essendo ancora esercitata la delega legislativa conferita con Legge n.103/2017 (modifiche al codice penale, codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che ha previsto di fissare in quattro anni il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione.
Nonostante il diverso parere dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui l’affidamento allargato sarebbe stato introdotto soltanto per i detenuti, allo scopo di svuotare le carceri. Il legislatore “Ha esplicitamente optato per l’equiparazione tra detenuti e liberi, ai fini dell’accesso alla misura alternativa”, ha obiettato la Corte, notando che “si è trattato di una scelta del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri, visto che esso persegue non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi facci ingresso chi è libero”.
Dunque, la scelta di consentire l’affidamento in prova ai condannati con pene tra tre anni e un giorno e quattro anni chi si trovano in stato di libertà rimarrebbe senza senso se non venisse sospeso l’ordine di esecuzione, perché di fatto la misura non potrebbe che essere applicata dopo l’ingresso in carcere. Pertanto, omettendo di adeguare la norma (sulla questione dei termini per la sospensione), il legislatore smentisce se stesso, introducendo nell’ordinamento una incongruità sistematica capace di ridurre lo spazio applicativo della normativa principale. La Corte ha concluso che non si tratta di un mero difetto di coordinamento ma della lesione dell’art. 3 della Costituzione, poiché si è dato luogo a un trattamento normativo differenziato (tra soggetti detenuti e in stato di libertà), di situazioni da reputarsi eguali quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alla garanzia apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato. Di qui l’incostituzionalità dell’art. 656, co. 5 c.p.p. “nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di pena maggiore, non superiore a tre anni anziché a quattro anni”.
A.I.