Come sappiamo la vita all’interno di un penitenziario non è facile, ma quella dei detenuti disabili è una vera e propria doppia pena a cui contribuiscono barriere architettoniche, mancanza di strutture in grado di accoglierli pienamente, carenza di operatori che li accompagnino nelle attività, fatica a usare i servizi igienici e a lavarsi come tutti gli altri, e strutture esterne in grado di fornire loro la necessaria assistenza in caso di concessione di misure alternative alla detenzione.
A tutto questo va aggiunto il dato preoccupante che per i detenuti con disabilità fisica esistono sezioni attrezzate in soli 7 istituti, per una capienza complessiva di 32 posti. Tutti gli altri vivono in camere di pernottamento comuni, quindi non idonee.
Ci sono poi i paradossi dei Tribunali di Sorveglianza che dispongono il rinvio dell’esecuzione della pena per taluni soggetti in condizioni di grave infermità fisica incompatibili con il carcere, ma che non vengono scarcerati perché non si trovano strutture deputate ad accoglierli.
Per altri, invece, il problema è a monte: il Tribunale di Sorveglianza respinge le istanze di scarcerazione, anche di fronte a condizioni cliniche oggettivamente gravi. E allora i detenuti disabili si ritrovano a dover scontare la propria condanna in condizioni precarie, aggravando la propria salute.
Per far fronte a questi problemi, e alle condanne della corte europea di Strasburgo che ha condannato l’Italia per ben quattro volte per problemi legati alle particolari esigenze dei detenuti con disabilità (Sentenza Scoppola), il DAP ha emanato una circolare nella quale detta le linee guida per riformare ed adeguare tutti gli istituti penitenziari in maniera tale da far rispettare i diritti delle persone con disabilità recluse.
Molta importanza la circolare del DAP ripone nei progetti di caregivers, ossia ai corsi che vengono effettuati per dare le competenze ai detenuti per svolgere il ruolo di “badante” per i compagni di cella con problemi di disabilità fisica. L’obiettivo è quello di formare tutti i detenuti lavoranti con competenze adeguate per lo svolgimento di interventi secondo il modello di “caregivers familiare”, comprendente l’igiene della persona, l’aiuto nel movimento e la mobilità in relazione alla limitazione motoria, le modalità di relazione, l’ alimentazione del paziente, le forme di allerta e di intervento per le emergenze.
Uno dei primi corsi è stato è stato avviato nel 2015 nel carcere di Bari, mentre da poco si è concluso quello organizzato presso la Casa Circondariale di Terni, in collaborazione con l’Azienda Umbria 2 Servizio Formazione.
Il progetto formativo ha avuto come scopo quello di formare i detenuti caregivers attraverso lo scambio di nozioni teoriche e pratiche in materia di primo soccorso al paziente acuto, primo soccorso al soggetto in arresto cardiaco, igiene della persona, dei luoghi e degli alimenti, modalità di relazione, assistenza nella mobilizzazione del soggetto con minorazione fisica, assistenza alla persona con problematiche psichiche e dipendenze trasmettendo ai partecipanti conoscenze di base per il supporto “assistenziale” alla persona, da impiegare all’interno del carcere e, in prospettiva futura nella vita quotidiana.
Tale progetto inoltre valorizza il potenziale dei detenuti in quanto persone e trasforma il tempo della detenzione in qualcosa di significativo ed utile per sé e per l’altro, in modo che non sia tempo “sospeso”, ma tempo vissuto attraverso esperienze che possano consentire il recupero di abilità sociali oltre che dare una risposta concreta alle esigenze organizzative dell’Istituto. Dunque non solo formazione e assistenza, ma anche uno strumento in più per incentivare la solidarietà dietro le sbarre.
Ma rimane il problema della società esterna.
Molti detenuti, a causa della propria disabilità, non possono usufruire a volte delle misure alternative alla detenzione. Nelle città non esistono strutture adeguate. Difficile trovare un’abitazione consona per loro ed è difficilissimo trovare un’occupazione nonostante le forme di lavoro protetto. Nella circolare del DAP non c’è nessun riferimento sulla necessità di sinergia tra carcere e territorio per quanto riguarda i detenuti con disabilità fisica. Anche per questo rischiano una doppia pena: oltre alle sbarre di una prigione anche quelle esterne.
D. G.