L’uomo fin dai primordi ha sempre avuto bisogno di credere in qualcosa, ma quel qualcosa era un misto di credenze, usanze, il più delle volte inventate, per dare una speranza, per dare a sé stessi una credibilità rispetto agli altri, serviva a tirare avanti giorno per giorno.
Era una galera diversa, da quella che è oggi. Una galera povera, (non che adesso non lo sia), ma in galera si cercava di avere quell’ascolto che non si era avuto all’esterno.
Cameroni con diverse anime sofferenti, compagni di un viaggio che poteva avere una durata incerta, perché la pena era una certezza relativa, ma le incognite esistevano. Il detto della galera era, e lo è anche oggi per certi aspetti: “in galera sai quando entri, ma non sai quando esci”.
I passatempi dei carcerati di allora, oltre alle abitudini quotidiane (dei rudimenti minimi di “pulizia della cella, anzi camerone”), erano limitati a passatempi semplici, quali il giocare a dama, costruendo la scacchiera disegnandola su un cartoncino e facendo le pedine con altrettanti cartoncini, perché allora non c’erano i tappi di acqua minerale o altro. C’era l’acqua di rubinetto, e in alcune carceri si imbavagliava il rubinetto con gli stracci o un pezzo di lenzuolo per filtrare l’acqua color ruggine data dalle tubature vecchissime. Poi c’era una diceria a cui personalmente non ho mai dato tanto credito, poiché sarebbe trapelata, prima o poi, e cioè quella che nel latte della distribuzione mattutina oltre all’aggiunta di acqua per aumentarne il volume e risparmiare, ci fosse il bromuro di potassio sedativo in uso in quegli anni.
Altri passatempi erano le carte, chi poteva permettersele le comprava, ma altri le disegnavano sempre sul cartone, che era un materiale ricercato e ambito per i molteplici usi.
Le carte avevano poi anche l’uso di affidare ad esse il proprio destino futuro, con i solitari. Fra questi ce ne era uno difficilissimo, quello detto dell’ergastolano, perché non riesce mai e dunque adatto a chi ha un “fine pena mai”. Potete sperimentarlo, mischiate le carte, poi iniziate a scoprire la prima contando 1. La carta non deve essere l’asso. Altrimenti il solitario non è riuscito, poi la seconda carta contate 2. La carta non deve essere il due, poi la terza 3. La carta non deve essere il tre. Poi ricominciate 1, poi 2, poi 3. Sicuramente nel mezzo, quando direte 1 o 2 o 3 uscirà la carta asso, o il due o il tre. Facendo fallire il solitario. Il carcerato, affidando al destino il suo pensiero su quel solitario, credeva che riuscendo potesse esaudirsi quella aspettativa, quel desiderio.
Per riuscire si poteva solo barare, preparando le carte.
C’era poi un curioso modo di affidare al fato il proprio destino. Si preparava un “coppetiello” con una striscia di carta, in genere era una “domandina” (attuale modello 393), ci sarebbe da disquisire anche sui termini riduttivi della galera di un tempo, la domandina… leziosismi di un potere che vuole far sentire la sua longa manus in tutto. Comunque, dicevamo, fatto il “coppetiello” (soffitto) si scriveva al suo interno il desiderio che si voleva realizzato, si bagnava la punta con la saliva, fino a rendere la carta una poltiglia e si lanciava verso il soffitto del camerone… tre tentativi erano disponibili, per far aderire il “coppetiello” al soffitto. Con tale espediente, si rasserenava l’animo del proponente e al tempo stesso i cameroni di quelle galere hanno avuto per anni coppetielli al soffitto.
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