Per passare dalla condizione di detenzione a quelle di un regime alternativo alla pena servono molti tasselli. Serve una casa ... il lavoro ... e le relazioni, sono fondamentali per acquisire frammenti della realtà esterna che riconducano a quotidianità condivise e alla possibilità di riacquisire spazi di libertà creando un ponte con l’esterno.
Proponiamo la prima e la seconda di una serie di poesie, nate durante le ore di italiano, dal gruppo di persone che hanno frequentato il corso per panettieri-aiuto pasticceri presso il carcere di Torino “Lorusso e Cutugno” tenutosi tra dicembre 2017 e gennaio 2018.
Il ricordo del periodo trascorso tra le alte muraglie con in cima cordicelle aguzze di filo spinato, comincia ad essere sbiadito dal tempo: l’aria di casa, seppure “viziata” dalle restrizioni della detenzione domiciliare, è quasi sempre una buona terapia per riportare la mente ad uno stato di normalità.
Febbraio del 2007, uscii dalla Casa Reclusione di Opera (Mi), dopo aver scontato sei anni di detenzione, ero cambiato e l’impatto con la libertà, mi dava un senso di grande inquietudine.
Quando lasciai casa mia, per farmi la mia vita, avevo 16 anni. Allora sembrava la scelta più giusta e sensata che potessi fare. I miei genitori erano separati già da un po’ di tempo, io vivevo da mio padre, l’unico di 6 figli che scelse di rimanergli a fianco, con gli altri cinque, oramai, non aveva più un buon rapporto. Feci questa decisione a 12 anni, in un aula di tribunale, davanti a un giudice e due avvocati divorzisti, compresi i miei genitori. All’inizio era tutto nella norma, la quotidiana vita di un adolescente. Scuola, amici, calcio e casa.
L’ultima festa di Capodanno trascorsa in famiglia è stata nel 2004. Da allora sino ad oggi non ho più festeggiato l’arrivo del nuovo anno con i miei familiari.