All’interno della redazione di Letter@21, ogni terzo mercoledì del mese si coinvolgono, oltre ai dipendenti della cooperativa Eta Beta, altre figure che gravitano all’interno del carcere di Torino, anch’essi detenuti.
Lo scopo è quello di scambiare informazioni e punti di vista su diverse tipologie di argomenti, in modo da poter accrescere il bagaglio culturale soggettivo, perché in fondo c’è sempre da imparare.
Ore dodici e trenta circa, stranamente il carrello non è ancora passato. Probabilmente ci sono stati problemi in cucina. Siamo tutti in attesa quando finalmente odiamo il suono del campanello. Creando una fila ben poco ordinata i commensali cominciano ad attorniare il tavolo dove verranno depositati i contenitori con il cibo e cominciano a chiamare il portavitto.
Che buon profumo, ci sarà qualcosa di veramente appetitoso oggi a pranzo. Ogni volta è cosi, ci si convince attraverso il profumo che fuoriesce dalla cucina che ci sia qualcosa di veramente sfizioso da mangiare e invece “la solita minestra", ovviamente si fa per dire.
Scendo le scale di ferro per raggiungere l’aria, la pioggia della sera prima da un odore di pulito al cemento armato dei muri malandati.
I trasferimenti delle persone detenute da un carcere all’altro si fanno con pullman e furgoni della Polizia Penitenziaria, i blindati. Piccole scatole di metallo dove non si vede nemmeno la strada e ti manca la luce del sole.
Essere felici dietro a delle sbarre e a delle mura di cemento armato si può? La vita all’interno del carcere non è mai facile, ma la risposta a questa domanda può essere complessa o banale, dipende soltanto dal tempo trascorso e dalle motivazioni che spingono un essere umano a porsi questo quesito.